Pubblicata anonima sul finire del 1792, El Lava piatt del Meneghin ch’è mort. Tacoin per l’ann 1793 è la prima opera stampata da Carlo Porta, ancora adolescente. Si tratta di un almanacco dove notizie di servizio – dagli orari dei corrieri al calendario dei santi – si alternano ai testi in dialetto milanese: dodici novelle in sesta rima, un sonetto caudato, quattro prose all’inizio delle stagioni e una prefazione. Il Meneghin ch’è mort altri non è che Domenico Balestrieri, modello imprescindibile. Il successo fu notevole, al punto che Porta decise di approntare un analogo almanacco per l’anno successivo, di cui non ci è giunta copia.
Al principio del XIX secolo Porta intraprese la traduzione in ottave milanesi della Commedia di Dante, sul modello della Gerusalemme Liberata di Domenico Balestrieri. Portò a termine la versione del primo canto dell’Inferno, pubblicato per la prima volta nell’edizione Cherubini, e di frammenti dei canti successivi.
I componimenti dialettali portiani si inseriscono nel solco di una tradizione secolare, celebrata nel sonetto Varon, Magg, Balestrer, Tanz e Parin, composto entro il 1808. In difesa del milanese si colloca I paroll d’on lenguagg, car sur Gorell (1810), scritto «per rintuzzare la baldanza» di un senese che «ebbe a prorompere in iscandescenze contro il vernacolo nostro».
Numerosi sono i sonetti in cui il cassiere Porta fustiga corruzione e disonestà: è il caso di Quand vedessev on pubblegh funzionari (1812). Altrettanti i sonetti di satira politica, come l’amaro Paracar che scappee de Lombardia (1814), ove sfoga l’amarezza contro i francesi, tramutatisi da liberatori in occupanti. Contraltare è il sonetto Catolegh, Apostolegh e Roman, scritto all’arrivo dei nuovi dominatori austriaci nell’aprile del 1814: qui il bersaglio dell’ironia è il ritorno all’Ancien Régime, inaccettabile per un operoso borghese, insofferente nei confronti dei nobili parassiti. Emblematici risultano a questo proposito due componimenti scritti nel 1815, Sissignor, sur Marches, lu l’è marches e Carlo Porta poetta Ambrosian.
Composti tra il marzo e il settembre del 1816, i Dodes sonitt all’abaa don Giavan ribattono puntualmente alle argomentazioni con cui Pietro Giordani (Giavan in milanese significa ‘sciocco’) stroncò sulla «Biblioteca Italiana» la Collezione delle migliori opere scritte in dialetto milanese approntata da Francesco Cherubini.
Gli Otto sonetti beroldinghiniani contro i romantici, scritti al principio del 1819, attaccano la vacua solennità dei classicisti imitando parodicamente i versi che l’anziano avvocato filoaustriaco Stoppani de Beroldinghen aveva composto nel 1815 in onore dell’imperatore Francesco I, tanto servili quanto ridicoli. Porta li fece recapitare anche ad Alessandro Manzoni, che rispose a tono. Di lì a un anno circolò una nuova serie di sei sonetti composti da Tommaso Grossi (i primi cinque) e Porta (l’ultimo) per replicare alle critiche subite dal Conte di Carmagnola di Manzoni.
Porta indossa in varie occasioni la tradizionale maschera ambrosiana. Il primo caso notevole è quello dei Paricc penser bislach d’on Meneghin repubblican, incompiuto apologo giovanile, in cui evoca la «Santa Democrazia» deprecando però i prepotenti che ne fanno un uso strumentale.
Ben altro impegno richiese il Brindes de Meneghin all’ostaria per el sposalizzi de S. M. l’Imperator Napoleon con Maria Luisa arziduchessa d’Austria (1810), celebrazione delle nozze tra Napoleone e Maria Luisa. Porta, che chiarì di avere composto il Brindes «non per forza di altrui comando, o suggerimento, né per desiderio di lucro […] ma per spontaneo tributo di ammirazione», esalta per bocca di Meneghin le speranze di pace duratura che i milanesi riponevano nel matrimonio. Speranze che si infransero di lì a poco, con la sconfitta di Napoleone e il ritorno degli Austriaci al potere.
Quando Francesco I giunse a Milano insieme alla moglie, Porta compose il Brindes de Meneghin a l’ostaria per l’entrada in Milan de Sova S.C. Majstaa I. R. A. Franzesch Primm in compagnia de Sova Miee l’Imperatriz Maria Luvisa (1815) nel quale, pur dichiarando la propria fedeltà ai nuovi dominatori, attribuiva all’ebbro Meneghin l’auspicio di una serie di riforme in grado di favorire una stagione di libertà e benessere.
Le cose andarono diversamente. Nei suoi ultimi anni Porta fece allora ricorso al medesimo personaggio per bersagliare il clima soffocante della Restaurazione, nell’epistola in terzine Meneghin Tandoeuggia al sciur don Rocch Tajana (1818) e nelle vibranti sestine del Meneghin biroeu di ex monegh (1820).
Operaio laborioso e marito fedele, Giovannin Bongee racconta le angherie subite da militari e autorità in due fortunati poemetti (il primo del 1812, il secondo del 1813-1814), nei quali si sfoga con un “Illustrissimo” signore. Che si trovi a fronteggiare l’arroganza di una ronda o le pretese di chi vorrebbe fare i propri comodi con sua moglie, il risultato è lo stesso. Dietro il coraggioso orgoglio proclamato con parole di fuoco si intravede – ridicola in apparenza, amara nel profondo – la realtà della sottomissione di un debole, regolarmente insultato, schernito, percosso da chi abusa del proprio potere.
È la creatura più audace del mondo portiano. Giovane pescivendola al mercato del Verziere si innamora del Pepp, che da tenero amante si trasforma in sfruttatore. Ridotta a prostituirsi per sopravvivere, nel suo poemetto – scritto nel 1814 come replica al Pepp perucchee di Giuseppe Bossi – Ninetta racconta senza ipocrisie a un cliente la storia della sua innocenza tradita, in un vertiginoso alternarsi di toni, che la vedono ora allegra ora rancorosa, languida, disperata. A lungo scambiato per un divertissement libertino, solo nel Novecento il poemetto è stato riconosciuto nel suo valore di potente testimonianza sulla violenza di genere.
Composto nel 1816, il Lament del Marchionn di gamb avert è il poemetto più impegnativo scritto da Porta: ben mille versi. Ciabattino per mestiere, suonatore di mandolino per passione, il Marchionn dalle gambe storte rivolge il suo lamento a chi come lui ha patito le pene di un amore infelice. Le sue disgrazie iniziano quando incontra la prorompente Tetton, in una notte di carnevale. Crudele e spregiudicata, questa maliarda plebea lo trascina insieme al lettore su e giù fra sale da ballo, osterie, case di ringhiera. L’ingenuo Marchionn dal matrimonio esce malconcio: tradito, umiliato, abbandonato con un bimbo non suo da accudire. A salvarlo dalla disperazione è il cuore grande.
Astuti o ingenui, allegri o musoni, ignoranti come zucche, i frati rappresentano un eccezionale combustibile per la fantasia di Porta. Alcune novelle composte tra il 1813 e il 1814 rileggono in chiave parodica testi edificanti del Seicento, per bersagliare l’ipocrisia e la superstizione. On miracol e Fraa Diodatt sono ispirate alle vicende esemplari raccolte nel secentesco Prato Fiorito di Giuseppe Ballardini, e raccontano rispettivamente il giudizio divino nei confronti di una canaglia e l’ascensione di frate Diodato, al culmine di un’estasi tutt’altro che pia. In Fraa Zenever, la cui fonte è l’edificante Libro delle Maraviglie di Dio ne’ suoi Santi di padre Carlo Gregorio Rossignoli (1696), Porta rivisita in toni comici il fioretto francescano di fra Ginepro.
Più tarde, databili al 1816, sono le sestine di El viacc de fraa Condutt, tradito da un’impellente necessità fisiologica mentre cavalca un asino in campagna. Coevo a queste è On esempi, noto anche come On striozz (la fonte è il racconto Aurelius und Beelzebub di Friedrich von Hagedorn), dove Porta mette in scena la storia di una vecchia che evoca il demonio per arricchirsi.
In varie novelle Porta mette in scena la Milano a lui contemporanea, agitando la frusta della satira anticlericale. Nei Sett desgrazzi (1815) un giovane seminarista partecipa a una festa in maschera al Teatro della Canobbiana, ma la serata finisce per lui nel peggiore dei modi. Non va meglio al bigotto catechista che nella Messa noeuva (1816) tenta una truffa in un bordello.
In On funeral (El Miserere), databile alla fine del 1816, il poeta di ritorno dalla “scuola di lingua” del Verziere entra nella chiesa di San Fedele, dove ascolta disgustato le insulse chiacchiere in dialetto con cui due preti inframmezzano la recita del Miserere.
Fuori dalle mura è invece ambientata La guerra di pret (1820), in cui Porta inscena, con toni eroicomici, una baruffa durante un pranzo di religiosi. La composizione, rimasta incompiuta, venne continuata da Tommaso Grossi.
Porta aggiorna al tempo della Restaurazione le satire di Giuseppe Parini contro la nobiltà più retriva. Irrimediabilmente superate dai tempi, eppure sempre altezzose e fiere dei propri privilegi, le “damazze” portiane occhieggiano in varie poesie, si travestono da dee dell’Olimpo nei componimenti anticlassicisti e imperversano in due capolavori: La nomina del cappellan (1819), dove la capricciosa marchesa Paola Cangiasa umilia un drappello di preti, esprimendosi in un goffo e sostenuto “parlar finito”; e l’Offerta a Dio (La preghiera) (1820), in cui donna Fabia Fabron de Fabrian adopera la stessa mescolanza di italiano e dialetto per rievocare indignata lo scherno suscitato da un suo capitombolo.
Porta offre la sua personale interpretazione dei principi romantici nel poemetto didascalico Il Romanticismo (1819). L’avversione verso l’impiego in poesia dei riferimenti mitologici innesca una serie di testi, inaugurata dallo smisurato Sonettin col covon (1817). In questa scia si inseriscono il sonetto Testament de Apoll (1819) e due visioni parodiche, del medesimo anno: l’epitalamio per le nozze Verri-Borromeo, scritto insieme a Tommaso Grossi, e le quartine per la nascita del primogenito del conte Pompeo Litta.
Prima che nei poemetti antimitologici, Porta nel 1812 aveva fatto ricorso al genere della visione nelle terzine In mort del Consejer de Stat Cav. Stanislao Bovara e in Ona vision, dove fraa Pasqual, dopo un pranzo pantagruelico, sogna un paradiso abitato da framassoni. Più tarda è l’elegiaca Apparizion del Tass (1817), incompiuta e continuata da Tommaso Grossi, il quale l’anno prima aveva composto la Prineide, cui viceversa non fu forse estranea la mano di Porta.
Porta fu autore di molti versi erotici o francamente osceni, a volte di taglio giocoso – come i sonetti Dormiven do tosann tutt dò attaccaa (1810), Sura Caterinin, tra i bej cossett (1810 ca.), Ricchezza del vocabolari milanes (1819) – a volte con un risvolto politico o morale, come la scenetta No Ghittin: no sont capazz (1808), il sonetto Per le gabelle e dazi esorbitanti imposti dal ministro Prina non si pensa più a fottere (1813), o le mordaci quartine I putann ai «Damm del bescottin» (1818).
Insieme a Tommaso Grossi Porta scrisse la «comi-tragedia» Giovanni Maria Visconti per il carnevale del 1818 al Teatro della Canobbiana: ma gli strali contro la tirannia indussero la censura austriaca a vietare la rappresentazione. Altri lavori teatrali occasionali o incompiuti si conservano fra le carte della Raccolta Portiana.
Porta scrisse numerose poesie in italiano, che ancora attendono un puntuale esame da parte della critica. Alcuni di questi versi si incontrano in estrose lettere inviate a parenti e amici.